Alberto Maisto: QUEL “MAL DI PATAGONIA”.
25 marzo 2020: è passata un’altra settimana e siamo ancora tutti a casa, stiamo combattendo una guerra strana e paradossale che ci ha colto del tutto impreparati.
Intanto il tempo scorre, le ore appaiono più lunghe e ogni giorno cerchiamo di andare alla ricerca di qualcosa di nuovo o di diverso che serva per combattere la monotonia e diventi uno stimolo per il nostro cervello.
C’è il tempo per tutto: coltivare qualche hobby, sperimentare nuove ricette di cucina, leggere libri, guardare vecchi film e ancora altro.
Ma c’è anche il tempo per fermarsi semplicemente a pensare, e oggi voglio pensare al mio ultimo lavoro, un libro che ha per oggetto la Patagonia e che è stato pubblicato alla fine dello scorso anno dall’editore Carlo Delfino.
E lo farò, nel cercare di spiegare come e perché è nato questo libro, cominciando con un accenno al cosiddetto “mal di Patagonia”, un misterioso e inspiegabile incantesimo (paragonabile al più noto “mal d’Africa” o al nostro più vicino “mal di Sardegna”), che ha colpito tante persone anche illustri e dal quale è molto difficile guarire.
Come mai questo bizzarro morbo continua a contagiare tante persone? Certamente non è la bellezza del luogo, visto che al mondo ne esistono di uguale bellezza e forse anche di più belli, ma quanti di questi altri luoghi riescono a suscitare le stesse emozioni?
Perché questa terra lontana, al contrario di altre, è riuscita a catturare l’interesse di tante persone, un interesse che dura ormai da tanto tempo e non accenna ad affievolirsi? Quale può essere il motivo di questo massiccio coinvolgimento?
Non è facile rispondere a queste domande, ma possiamo provarci partendo da un dato inconfutabile: e cioè che questa parte di mondo è diventata per tutti, anche per chi non c’è mai stato, un vero e proprio mito.
Quello che sappiamo con certezza è che l’origine di questo mito risale ad una data precisa, esattamente al 1977, quando viene pubblicato a Londra il libro di Bruce Chatwin In Patagonia.
Fino ad allora questa terra era una di quelle “maledette da Dio e dagli uomini”, con un clima ostile e con sparuti villaggi distanti centinaia di chilometri l’uno dall’altro, sconosciuta al turismo e ai viaggi, con la sola esclusione di pochi alpinisti o avventurieri, una terra dove in passato avevano addirittura scorrazzato bande di malviventi, come i celeberrimi Butch Cassidy e Sundance Kid.
Ma tutto questo, anche se sembra incredibile, venne a cessare con Bruce Chatwin, giornalista e fotografo, personaggio eccentrico, brillante e romantico allo stesso tempo, amante della pittura e delle arti visive.
Nato a Sheffield nel 1940, nel 1973 iniziò la sua collaborazione col Sunday Times come consulente culturale, cosa che gli permise di compiere numerosi viaggi all’estero come inviato speciale in occasione di mostre o eventi artistici.
E proprio durante uno di questi viaggi ebbe occasione di incontrare nel suo studio di Parigi una signora irlandese di 93 anni, Eyleen Gray, architetto di grande fama: durante l’intervista, Chatwin notò appeso alla parete un quadro con la mappa della Patagonia dipinto da lei stessa.
Iniziarono a parlare di questa terra lontana e la signora accennò a un misterioso animale preistorico, il brontosauro, del quale secondo lei potevano esserci tracce proprio nelle steppe patagoniche. Avrebbe voluto partire alla sua ricerca, ma l’età troppo avanzata glielo impediva. «Vada lei al posto mio», gli disse la signora a bruciapelo. Lui ci pensò solo fino all’indomani, dopo di che partì direttamente per il Sud America, armato della sua fedele macchina fotografica e di alcuni taccuini Moleskine.
Appena arrivato a Buenos Aires entrò in un ufficio postale e inviò un laconico telegramma al giornale: “Partito per la Patagonia”.
Doveva essere un viaggio breve, invece vi trascorse sei mesi, si dimise dal giornale e ovviamente non trovò il brontosauro. Ma il risultato di questa esperienza fu il libro In Patagonia, uno dei massimi successi editoriali di sempre.
Un capolavoro letterario che fece di Bruce Chatwin uno dei grandi scrittori del novecento, un libro che ha contribuito a rinvigorire quella letteratura di viaggio, già in voga sin dall’ottocento e ancora oggi molto diffusa.
Da quel momento la Patagonia, quasi per magia, ha cessato di essere quella terra inospitale dove i funzionari dello stato e i militari venivano trasferiti per punizione.
È diventata invece quel mito che continua ad affascinare milioni di viaggiatori di ogni parte del mondo e tutti quelli che ci sono stati hanno finito per tornarne completamente ammaliati, come successe per primo allo stesso Chatwin, che infatti scrisse queste parole rivelatrici: “La Patagonia lancia il suo incantesimo, ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”.
Ed è successo anche a me, nel mio piccolo, di finire stritolato da quell’abbraccio, un viaggio di venti giorni che è rimasto scolpito nella mia memoria.
Ho visitato la Patagonia in anni non troppo lontani, dopo averlo desiderato a lungo. Sin da bambino ho coltivato una passione per la geografia che non esito a definire maniacale, ogni momento era buono per scrutare con curiosità le pagine sgualcite e ingiallite di un vecchio atlante e questa passione non è mai scemata, con la differenza che il vecchio atlante è stato oramai soppiantato da moderni mezzi come “google earth”. Mi vantavo, e posso dire a ragione, di conoscere sulla carta ogni parte del mondo e la mia attenzione era riservata soprattutto ai paesi lontani e poco conosciuti che per questo motivo mi sembravano più degni di essere visitati.
Quando questa passione per la geografia si è trovata a convivere con l’altra mia grande passione, la fotografia, le due cose hanno potuto camminare sulla stessa strada e anzi compenetrarsi a vicenda.
“Viaggiare per fotografare, fotografare per documentare” è diventato ad un certo punto il mio motto, non c’è stato viaggio del quale io non conservi tuttora una corposa documentazione fotografica.
Dalle immagini della Patagonia, a differenza di altri luoghi del mondo che ho avuto la fortuna di visitare, sono scaturiti due progetti editoriali: una prima edizione, pubblicata nel 2007 dall’editore milanese Gabriele Mazzotta, e una seconda, quella di cui parliamo, talmente riveduta e migliorata da potersi considerare come nuova edizione.
Questo libro si differisce dalla maggior parte dei libri fotografici presenti nei cataloghi dei vari editori in quanto ogni fotografia è accompagnata da brevi brani di vari autori, nomi anche famosi, come Luis Sepulveda, Claudio Magris, Charles Darwin, Antoine de Saint-Exupery, Walter Bonatti, Ernesto Che Guevara, Francisco Coloane, lo stesso Chatwin e altri ancora.
Il mio intento, reso esplicito dai sottotitoli, è quello di creare una relazione tra le immagini e le parole, tra le fotografie e i brani utilizzati e viceversa.
Non solo un libro da guardare pertanto, ma anche un libro da leggere, una lettura che mi auguro piacevole alla scoperta di quella parte terminale del continente americano che si allunga verso l’Antartide come una enorme coda.
Se avrò fatto centro lo potranno dire solo i lettori. Per il momento, e questo mi basta, si tratta per me di una grande soddisfazione: il “mal di Patagonia” ha colpito anche me.
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