Marco Pinna: “Il linguaggio silenzioso delle pietre” (1).
“Il Signore di cui è l’oracolo in Delfi, non dice e non nasconde: significa”
Eraclito, frammento 120 (DK101).
Grava su ciascuno di noi un debito: verso il bambino che siamo stati, e di cui conserviamo tracce più o meno sbiadite.
Ricordo che fin dalla primissima infanzia, nasceva in me istintiva e pervasiva una domanda, quando mio padre mi portava a visitare le torri nuragiche nella nostra Terra.
Cosa significa tutto questo?
La torre, le volte a cupola, le scale spiraliformi, quei massi così lavorati e disposti, i segni, cosa significavano?
La stessa domanda mi ha accompagnato, nel tempo, di fronte ad un’opera d’arte, una costruzione Sacra.
Un arco a tutto sesto oppure a ogiva, una volta, un transetto, un’abside, un
deambulatorio, un altare, una cupola, una certa decorazione disposta in quel dato modo…cosa significano?
Per quanto la bellezza, l’imponenza, l’eleganza, potessero vertiginosamente cogliermi, la domanda, rimaneva, lasciandomi dentro una profonda insoddisfazione.
Non vi è certo alcunché di originale in tale quesito.
Si può dire che la ricerca di un significato abbia accompagnato, da sempre, lo svolgersi dell’Umana vicenda.
Sarebbe al più da interrogarsi in merito al perché, ad un certo punto, questa esigenza sia andata affievolendosi, cosa ciò abbia espresso e comportato.
Il “significare”, ovvero la capacità di un “segno”, sia esso grafico, architettonico, musicale, di esprimere un senso profondo, un senso “altro”, che la nostra Ratio non è in grado di cogliere ed il linguaggio ordinario non è in grado di esprimere, ci rimanda ad una esigenza che nella Storia non solo non è stata marginale, ma si può lucidamente affermare che, per lunghissimo tempo, abbia rappresentato “La” esigenza.
Laddove lo si ricollega a quello che ne è il primo e più compiuto strumento espressivo, ovvero il linguaggio simbolico, ecco che si manifesta l’aspetto strategico della questione: la dimensione del Sacro.
Ribadiamo, ammesso ve ne sia bisogno, che il Sacro non attiene esclusivamente al Religioso (una bandiera, ad esempio, ha una sua sacralità senza alcuna implicazione religiosa).
Nel tempo presente, la sfera del Sacro attiene a momenti ed esperienze che rispetto al quotidiano rivestono un ruolo assolutamente marginale.
Ma non solo non è sempre stato così, si deve anzi avere ben chiaro che questa modalità risulta storicamente assai “giovane”: al più data da qualche secolo.
E nemmeno oggi è universalmente condivisa: ad esempio sicuramente una delle maggiori criticità nel tentativo di stabilire un dialogo con la Cultura Islamica, risiede proprio in questa differente premessa nella visione del quotidiano.
Per millenni tale dimensione ha pervaso praticamente ogni modalità della vita quotidiana.
M. Eliade, ha scritto che il Sacro deve ritenersi elemento costitutivo della coscienza umana (Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Sansoni, 1999, p. 7).
Quindi non semplicemente una modalità del pensiero, ma un elemento costitutivo del pensare.
Ma, ed è qui che il corto circuito si profila, il Sacro attiene esattamente a ciò che la Ratio non è in grado di cogliere ed esprimere: si avverte, si esperisce,
ma rimane appannaggio dell’Intellectus, e non può essere riportato nell’alveo del linguaggio discorsivo.
Da ritenersi intrinsecamente asemantico: non per nulla una delle modalità che in ogni epoca e cultura ne ha rappresentato la possibilità espressiva per
eccellenza è la Musica, a sua volta linguaggio asemantico .
Può essere quindi espresso solo in via indiretta, elettivamente attraverso il linguaggio simbolico.
La condivisione di codici simbolici, quale espressione di una realtà altra, significante per il singolo e per la collettività, dimensione avvertita, esperita, ma non traducibile in parole, eppure presente e vissuta, ha rappresentato fin dal sorgere delle prime Comunità, il principale vincolo identitario.
Nel simbolo e attraverso il simbolo l’individuo sviluppa e costituisce quei codici che innanzitutto consentono di esprimere e stabilizzare quelle istanze psichiche, che altrimenti resterebbero irrisolte e inespresse.
Inoltre, nel simbolo e attraverso il simbolo, l’individuo coglie quella matrice che lo accomuna agli altri individui in un vincolo di profonda condivisione, unico possibile fondamento per la costituzione del legame identitario.
Solo attraverso il linguaggio simbolico l’ Uomo riesce a superare la distruttiva solitudine della propria egoità, riprendendo e mantenendo il contatto con le proprie più profonde radici, sia a livello individuale che collettivo.
Realizza così la percezione di quanto e come il Microcosmo da lui esperito, trovi un senso e un compimento nel Macrocosmo in cui è inserito, realizzando in tal modo la sua vocazione Universale, nel senso letterale del termine: rivolto verso l’Uno.
E l’archetipo simbolico in ogni Cultura, tempo e latitudine, è stata la Pietra.
Mentre ancora il linguaggio si andava strutturando ed esplorava le proprie potenzialità espressive, attraverso le pietre l’Umanità raccontava e si raccontava, con un alfabeto ricco e complesso, la cui decifrazione ci consente di meglio conoscere e comprendere le nostre radici.
Non vi è Cultura in cui la pietra non sia stata l’epitome dei contenuti simbolici.
Ripercorriamo, brevemente, la vicenda di Giacobbe (Genesi, 28:10,22).
Nella dimensione del sogno, Giacobbe entra in comunicazione col Divino.
Al suo risveglio, la pietra che aveva scelto come appoggio per la testa, la
innalza, la infigge nel terreno, e la definisce Beth El, (Betilo), Casa del Signore.
Il sogno, la testa “appoggiata”, immediatamente ci rimandano ad una conoscenza su basi non razionali.
Ma attenzione, non si intende in questo uno scivolare nell’irrazionale, ma il fruire della conoscenza intuitiva, l’Intellectus, sopra individuale, diversa dalla ratio, che rimane di ordine preminentemente individuale.
La testa di Giacobbe appoggiata, come la testa mozzata che S. Miniato porta sotto braccio nello scegliere come luogo per la sua sepoltura il Mons Florentinus a lui oggi dedicato, ci ricordano come non attraverso la ragione sia possibile avvicinarsi al Sacro, ed esperirlo.
La pietra rappresenta al tempo stesso il veicolo di questa esperienza del Sacro, e la sua espressione.
Una volta stabilito il contatto, effettuato il passaggio di stato, la pietra verrà collocata in posizione verticale, ad esprimere tutto il suo potenziale simbolico, tutta la sua capacità di significare: sarà pertanto la scala che consente l’accesso agli Stati di Coscienza Superiori, come la montagna, e successivamente diverrà il betilo, il menhir, e infine il templum.
E tanto e tale risulta il suo significare, che anche quando nell’annuncio della Nuova Alleanza, il Divino verrà “spostato” dal templum per essere collocato nella dimensione dello Spirito (“Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in Spirito e Verità” Gio. 4; 24), anche allora dicevamo, sempre e comunque su una pietra, per quanto simbolica, si porrà fondamento (“ E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa” Mat. 16;18).
Dunque, la pietra.
Quando Giacobbe la infigge nel terreno, la trasforma in un ortostato.
Non è più un semplice oggetto, ma un simbolo.
Fine prima parte.
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